Il muro a secco, anzi per la precisione il muro di pietra a secco (i muri a secco in dialetto locale erano chiamati “” lu paret “”, i muri a secco non erano altro che delle opere fatte di pietra calcarea (la pietra calcarea ha la catteristica di presentarsi bianchissima appena spaccata, col tempo ed esposta agli agenti atmosferici diventa lentamente nella parte esterna di color grigio, dovuto a microscopici licheni) appena sbozzate e sovrapposte l’una all’altra senza malta o cemento, poste in opera con una tale maestria che alcuni di questi muri sono ancora in piedi dopo centinaia di anni (ancora ne esistono, ma pochi purtroppo, grazie alla mano dell’uomo), ve nè erano di altezza e larghezza variabili e per uso diverso, a secondo dell’altezza (da circa mezzo metro ai tre metri e passa d’altezza) il muro a secco alla base poteva essere largo anche più di un metro (vi erano e vi sono ancora resti di muri usati anticamente più che altro per difesa, larghi anche più di due metri, questi muri in dialetto erano chiamati “” lu par-ton “”) .
I muri a secco venivano costruiti da una casta di artigiani chiamati “” mastr paritar “”.
Anche i trulli ( “” casiedd “”) venivano fatti con pietre messe in opera a secco, ma questa è un’altra storia.
Il muro a secco veniva costruito su una fondazione scavata nella terra, dove la pietra viva affiorava dal terreno il muro vi veniva costruito sopra, in pratica il muro e la fondazione erano un tutt’uno, nelle due facce della parte esterna il muro era fatto di pietre più grosse sbozzate (lavorate) grossolanamente mentre nella parte interna venivano poste pietre più piccole di varie misure (addirittura ciotoli di pochi centimetri) sino a riempire completamente le intercapedini senza alcun ausilio di malta o cemento, sulla sommita del muro (cosa che ne alzava notevolmente l’altezza) venivano messe delle pietre (dal peso di quaranta cinquanta chili e più) per traverso a chiudere il muro.
La base del muro partiva con una laghezza di almeno un metro ed andava restingendosi dai due lati man mano che si alzava, sino a che le pietre delle due facce si toccavano tra loro.
I muri più alti e quelli larghi di solito venivano fatti per delimitare la proprieta di una masseria; quelli estremamente larghi (anche più di due metri) erano usati per difendere fabbricati, villaggi o addirittura intere citta (alcuni resti di queste mura, pochi purtroppo, sono ancora visibili nei dintorni della citta di Ceglie Messapica, come dice il suo stesso nome una antica citta di origine messapica); vi erano e vi sono ancora (pochi purtroppo) altri muri a secco che delimitavano una dall’altra le proprietà terriere e le proprietà dalla strada, questi andavano da un’altezza di mezzo metro circa sino ad un massimo di un’altezza tra un metro e mezzo e un metro e settanta.
Per la verità muri a imitazione dei vecchi muri a secco vengono ancora costruiti, ma non sono più la stessa cosa, anche se dall’esterno non si nota nulla, nelle intercapedini viene colato dell’impasto di cemento.
Il muro a secco faceva in pratica oltre che in alcuni casi da funzione difensiva, era anche la recinzione dell’antichità.
Dietro ogn’uno di quei muri vi era tutto un mondo isolato da tutto il resto (era l’epoca durante il quale ogni podere aveva il suo trullo o costruzioni di altro tipo e tutti erano rigorosamente abitati tutto l’anno).
Un mondo di gioe e dolori (forse più dolori che gioie), un mondo fatto di adulti che lavoravano nei terreni dall’alba sino al tramonto, da adolescenti che volenti o nolenti dovevano lavorare con i genitori, da bambini che già dalla tenera età di sei-sette anni si dovevano guadagnare il pane anche loro.
Il muro delimitava un mondo, un mondo fatto di gente che magari non usciva dal loro appezzamento di terreno ossia oltre il muro a secco per l’intera settimana. Isolamento interrotto solo dalla domenica quando si andava a messa e dopo la messa dal mercato settimanale (che allora si teneva la domenica). Quando i figli erano invitati ad andare in paese con i genitori per loro era gran festa.
Insomma li si svolgeva la loro vita li si faceva tutto, li si nasceva, li si viveva e li si moriva.
I bambini più piccoli che non erano ancora in grado di lavorare potevano giocare (non esistevano certo giocattoli, si dovevano arrangiare con quel che trovavano) fuori casa, ma il loro territorio era delimitato da quel onnipresente muro a secco, guai a sorpassarlo o tanto meno cercare di scalarlo, il muro era è doveva essere qualcosa di invalicabile (pena di pesanti rispolverate corporali, botte).
Molte volte nella stessa casa vivevano anche delle persone anziane come i genitori, i suoceri, qualche zia zitella o zio scapolo (allora non esisteva ancora la pensione di vecchiaia ed i vecchi per poter sopravvivere si dovevano appoggiare ad uno/a dei figli/e o ai nipoti, comunque a parte questo a quei tempi i genitori, le persone anziane o vecchie erano sacri, non come oggi, bah, lasciamo perdere).
Gli anziani se ce la facevano collaboravano nella coltivazione del terreno.
Di solito era la donna anziana che provvedeva alle faccende di casa, lavava i panni (a mano non vi erano o non si potevano comprare lavatrici), controllava i piccoli, provvedeva alla cucina (i pasti venivano preparati tanto quanto bastava e consumati subito, non esistevano frigoriferi per conservare il cibo) per tutti (cucina per la verità molto misera, si usavano in maggioranza i prodotti della propria terra, fave, piselli, ceci, lupini, lenticchie, pomodori e molti tipi di verdura, oppure prodotti barattati con i vicini) in maggioranza venivano cucinate le fave (a lungo andare uno le stufava, ma erano quelle che costavano meno e bisognava arrangiarsi, a saperle cucinare vicno ai carboni della legna era un’arte, occorevano ore e ore (alle volte anche quattro o cinque ore) per la cottura, si diceva che se una donna non sapeva cucinare le fave difficilmente trovava marito) le fave venivano sempre accompagnate da un contorno di verdura cotta (spesso cicoria selvatica) oppure quando erano disponibili, peperoni fritti, cime di rape stufate, uva, olive ed altro.
La pasta le poche volte che veniva usata si faceva a mano in casa.
La carne era qualcosa di inarrivabile, si comprava solo nelle feste comandate, per il resto chi poteva qualche volta mangiava animali da pollaio allevati da loro stessi.
Il pane veniva fatto in casa (si usava un forno costruito vicino alla casa), nella giusta quantità per durare tutta la settimana, il grano veniva prodotto da loro stessi ed alle volte macinato anche da loro (con un attrezzo chiamato “” stuemp “”, in pratica un mortaio fatto in casa, un attrezzo di legno per battere e una pila di pietra per contenere il grano).
Non che questa gente fosse contenta di vivere cosi, ma era rassegnata per loro era una cosa normale.
La tarda sera (alla luce della lampada ad olio o a petrolio, nelle campagne non c’èra la luce elettrica) prima di andare a letto, ed era d’obbligo e non si sgarrava nessuno si poteva esimere, c’èra il rito del rosario serale.
Poi dopo la seconda guerra mondiale, quel mondo, quelle antiche tradizioni, quel modo di vivere ando lentamente scomparendo, la gente cominciò ad andare a vivere in paese (e li comiciarano tutti i vizi e stravizi che abbiamo noi generazioni di oggi), e le campagne furono del tutto spopolate tranne qualche rarissima eccezione. Rimasero solo le testimonianze di centinaia di lamie e trulli abbandonati (oggi sono quasi tutti in rovina o addirittura crollati, salvo qualche eccezione, i quali dopo essere stati restaurati vengono usati come abitazioni estive).
I vecchi muri a secco sono oramai in rovina anche loro.
Già, in rovina, allo sfascio, allo sfascio come sta andando oggi la nostra società, Dio non voglia che si vada a finire di nuovo come era allora quando solo per poter mangiare ci si doveva ammazzare di lavoro dall’alba al tramonto, spesso pronunciavano la frase “” fatii e fatii e la ser pan e cipodd “” (traduzione= lavori e lavori e la sera pane e cipolla), a significare la vita grama che conducevano.